Agli albori della stagione estiva ecco che ripartono sui giornali le consuete interviste a imprenditori che lamentano la scarsa disponibilità di manodopera giovanile accompagnando sempre la discussione con la classica frase “i giovani non hanno voglia di lavorare”. Ma su cosa si basano queste dichiarazioni? E soprattutto, quale è il punto di vista delle nuove generazioni?
Dai più celebri ai meno conosciuti, imprenditori di ogni settore si espongono sulla difficoltà di reperire e soprattutto ritenere il proprio personale. Abbiamo già affrontato il tema della “great resignation” che la pandemia ha spinto in maniera importante, vedendo sempre più persone indisposte a scendere a compromessi che non coincidono con la vita personale e con gli obiettivi di carriera.
Ciò che emerge da questo cambiamento attitudinale verso il lavoro è una visione profondamente più sensibile del proprio ruolo assieme ad obiettivi coerenti sia con il percorso di studio che con le esperienze fatte. Le scelte di carriera che i giovani di oggi si trovano davanti sono una naturale conseguenza delle ampie possibilità di accesso a scuole ed università e diventa assai più improbabile che un giovane accetti di inserirsi in un contesto specchio di una generazione che celebra l’anzianità chiedendo anni di esperienza per un posto entry level.
Si presentano candidati che non hanno lo standing per lavorare in un determinato ambiente. Questo significa che o la famiglia o la formazione o la scuola non sono stati sufficienti. Ben venga, dunque, un po’ di disciplina che porti al rispetto. Altrimenti si crescono persone che non hanno nerbo e che, quando vengono a chiedere un posto di lavoro, pensano solo al sabato e la domenica liberi e a come vengono pagati gli straordinari. Io dico: comincia a darti da fare, a diventare indispensabile per la realtà in cui lavori
Tiziana Fausti - intervista al Corriere di Bergamo
Spesso gli statement degli imprenditori cominciano con un altro grande classico “io alla loro età lavoravo dieci ore al giorno e non mi lamentavo della paga, né pretendevo ferie o giorni liberi”. Dinanzi a questo viene spontaneo rispondere con una domanda: “ed era giusto?”. Il fatto che in passato le cose funzionassero in maniera diversa non ne giustifica la validità di applicazione nella realtà odierna. Lavorare senza saperne le condizioni e le implicazioni non era giusto né nel 1880 né nel 1980 e dovrebbe far onore ai giovani di essere in possesso di una cognizione tale da evitare situazioni ingiuste che vanno contro il diritto del lavoro e la dignità umana.
Non ci dovrebbe essere nulla di strano nel dire di no ad orari di lavoro un po’ troppo flessibili, a contratti di sei mesi senza alcuna tutela del futuro, a giorni di riposo inesistenti e a lavoro in nero (ben il 70% di irregolarità solo nel settore alberghiero e della ristorazione secondo i dati dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro). Eppure c’è chi scalpita e sbatte i piedi in terra perché i giovani si permettono di chiedere quanto il loro lavoro sarà retribuito, mentre raramente ci si interroga sulla natura dell’offerta che viene messa sul tavolo.
Sarò impopolare, ma non ho alcun problema nel dire che lavorare per imparare non significa essere per forza pagati. Io prestavo servizio sulle navi da crociera con vitto e alloggio riconosciuti. Stop. Mi andava bene così: l'opportunità valeva lo stipendio. Oggi ci sono ragazzetti senza arte né parte che di investire su se stessi non hanno la benché minima intenzione. Manca la devozione al lavoro, manca l'attaccamento alla maglia. Alle volte ho come l'impressione che le nuove generazioni cerchino un impiego sperando di non trovarlo perché, quando poi li chiami per dare loro una possibilità, non si fanno trovare. Vuoi diventare Alessandro Borghese? Devi lavorare sodo. A me nessuno ha mai regalato nulla. Mi sono spaccato la schiena io, questo lavoro è fatto di sacrifici e abnegazione. Oggi i ragazzi preferiscono tenersi stretto il weekend con gli amici. E quando decidono di provarci, lo fanno con l'arroganza di chi sente arrivato e la pretesa di ricevere compensi importanti da subito
Alessandro Borghese - intervista al Corriere della Sera
Ciò che gli imprenditori dovrebbero comprendere è che una narrazione tossica, che non fa altro che alimentare stereotipi da salotto televisivo, va a peggiorare la percezione che le nuove generazioni hanno verso quelle precedenti, vedendole sempre più come aliene, alienate ed alienatrici. Affermare che i giovani non vogliono lavorare è di per sé un’attitudine che di imprenditoriale ha ben poco; un vero imprenditore deve saper guardare al futuro avendo a cuore la condizione del proprio staff. Cari imprenditori, i giovani non vogliono solo lavorare, vogliono un lavoro in cui credere, che dia loro un obiettivo ed un percorso per perseguirlo.
Non è vero ciò che dicono, noi nel nostro ristorante di Roma non abbiamo problemi a trovare manodopera. Siamo stati fortunati. Nel nostro ristorante lavorano ragazzi che abbiamo assunto cinque anni fa e altri presi più di recente. Vero è che, oltre a offrire un contratto regolare, noi assicuriamo anche un clima di lavoro sereno e familiare. Se uno ha un problema, gli si va incontro
Lino Banfi - intervista alla Gazzetta del Mezzogiorno
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